Seconda e ultima puntata di “La fabbrica della bellezza”

Questa lettura dell’arte con la mente ci porta a percepire quale aberrazione si formuli nella posizione implacabile del filosofo: «Platone lascia cadere l’arte all’ultimo gradino delle opere umane, poiché per lui tutto ciò che esiste, è solo nel suo rapporto con l’idea. Ciò che non esiste è già mera imitazione di un più-che-reale, di un surreale. Se l’arte imita, è un’ombra di un’ombra, una imitazione d’imitazione. Vedete quindi quale vanità vi sia nell’opera d’arte, nell’opera del pennello.»7 Platone vedeva nell’artista un pericoloso elemento perturbatore dell’incontaminabile repubblica. Strano timore del piacere perchè tendeva ad analizzare le cause su base psicologica, le forme artistiche dovevano avere la forza seduttiva nella morale, nel narrare atti eroici e d’interesse civico per unire la struttura sociale dello stato. Era per il dominio della mente nell’intatto mondo delle idee.
Ritornando all’oggi lasciamo lo strato geologico più antico facendo cenno all’immaginario (fantasma dell’artista) che si dispiega circolarmente per corsi e ricorsi, ed è un processo dinamico per l’individuo, (come abbiamo riportato prima) è la pulsione che fa tendere l’organismo verso un bersaglio non sessuale volgendolo a mete socialmente accettabili del registro della sublimazione; quindi la trasformazione degli impulsi primitivi in attività creatrice. Partendo dalla forza pulsionale che spinge alla creazione e alla sublimazione, l’opera ha l’arte di provocare un piacere all’altezza del sentimeno di esultanza, di attonito stupore, di nostalgia o terrore che affiora nell’incontro inatteso con la Cosa.
6 M. Recalcati, ibid, p.1, 2004. 7 J. Lacan, ibid, p. 167
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Questo parlare della Cosa ricorda il Roland Barthes del suo “L’impero dei segni” quando ci descrive Tokio: «La città presenta un paradosso prezioso: essa possiede sì un centro, ma questo centro è vuoto. Tutta la città ruota intorno a un luogo che è insieme interdetto e indifferente, dimora mascherata dalla vegetazione… i taxi evitano questo cerchio la cui cima bassa, forma visibile dell’invisibile, nasconde il “nulla” sacro. Una delle città più potenti del mondo è dunque costruita intorno ad un anello opaco di muraglie, d’acque, di tetti e di alberi, il cui centro stesso non è altro che un’idea evaporata che sussiste non per irradiare qualche potere ma per offrire a tutto il movimento urbano il sostegno del proprio vuoto centrale obbligando la circolazione a una deviazione perpetua. In questo modo, a quel che si dice, l’immaginario si dispiega circolarmente per corsi e ricorsi intorno a un soggetto vuoto».8 Certo un’analogia molto intrigante con l’estetica del vuoto di Lacan.
Altre analogie con l’estetica del vuoto le abbiamo con l’elogio della coscienza di Emilio Vedova «Quando si vedono le mie tensioni di segni, ove tutto scoppia, subito sono etichettato: informel! Questo è superficiale. I miei lavori sono pieni di strutture – queste strutture sono strutture della mia coscienza».9 Così l’artista a sua insaputa, precede lo psicoanalista. Ciò che occorre fuori del controllo della coscienza, nell’inconscio, non sta sotto le strutture ma è ciò che costituisce, nella visione lacaniana, il mistero irrisolvibile del reale. Nello stordimento della conquista, il fantasma dell’artista a confronto con il caso e la necessità, dà luce all’opera, racchiudendo la realtà tra lo svelato e il nascosto. E’ tra reale e significante che la Cosa vela il rapporto col reale quasi volesse depistare un’indagine su un delitto; l’oggetto liberato dalla sua funzione d’uso rivela la Cosa. Vedova era sulla buona strada nella ricerca soddisfacente della propria tendenza di essere artista poichè l’oggetto rappresentato non è importante, ma è fondamentale la Cosa. Vedova aveva forse intenzione di dare dignità all’oggetto senza cedere alla tentazione della scorciatoia astrattista.
8 R. Barthes, L’impero dei sensi, Einaudi 1984, p.42 9 L. P. Finizio, Elogio dell’astrattismo, Mimesis Milano 2012 p. 32, E. Vedova, scontro di situazioni- Libertà dell’espressione, Ed. all’insegna del pesce d’oro, Milano 1963
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Le idee vengono dall’eccitazione intellettuale, dalle sensazioni, dai contatti estremi, dalla percezione dei comportamenti altrui. Quindi immersione sensoriale per capire il domani del mondo non classificabile come figurativo o astratto. La ricerca della bellezza è un po’ come fare la ronda attorno alla Cosa nell’intento di avvicinarla. Il termine “la chose” deriva dal greco con significato di causa, involucro e designazione del concreto. La storia, certo, esercita una potenza cieca su ciascuno di noi ma un’altra potenza può essere a lei opposta, la bellezza. La ricerca della bellezza rientra nel tema “l’amore del bello”. Il bello specifica la direzione con la quale si ha la chiamata, l’attrazione alla possessione, il piacere di possedere. «Il bello non è per Lacan la dimensione di una pura armonia formale – il bello non è la rimozione del brutto del reale- ma è un modo di sperimentare una distanza estetica dal reale della Cosa, è al tempo stesso, l’indice dell’al di là assoluto che la Cosa costituisce rispetto al campo dei sembianti sociali. In fondo è questa l’omologia profonda tra arte e psicoanalisi; entrambe sono pratiche simboliche che mirano a trattare il reale della Cosa, che prendono corpo proprio nel tempo in cui il sistema dei sembianti vacilla».10 Nell’arte contemporanea, come espressione necessaria alla realtà del mondo troviamo, lasciando alle spalle il concetto di astrattismo, l’amore del bello nel contemporaneo di diversi artisti, tra cui la felicità degli oggetti di Jeff Koons. Dell’opera di Koons possiamo dire che il fantasma è nudo portato allo stesso grado di evidenza dell’oggetto di consumazione quindi ne figurativo ne astratto ma innominabile. «L’opera “Balloon Swan” è un miraggio vicino al surrealismo burlesco oppure feticcio di statua preistorica».11 L’opera di Koons si può considerare anamorfosi, e a tal proposito J.Lacan dice che l’interesse per l’anamorfosi viene descritto come il punto di svolta in cui l’artista rovescia completamente l’utilizzo dell’illusione dello spazio. Koons si sforza di farla rientrare nel suo scopo primitivo, ossia di farne come tale il supporto di quella realtà nascosta poichè in un’opera d’arte, si tratta sempre in un certo qual modo di circoscrivere la Cosa. 10 M. Recalcati, ibid, p.2 11 Le Monde, Culture, articolo di Philippe Dagen, Un Jeff Koons en cache toujours un autre, 15 Maggio 2012 p. 24
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Dall’estetica del vuoto abbiamo fatto un salto all’estetica anamorfica nella quale non è il soggetto che contempla l’opera ma la corteccia, tegumento dell’opera che cattura il soggetto. Con la ricerca della bellezza, anche nell’esempio citato, ciascun soggetto artista in base alla sua storia intima ha uno o più oggetti privilegiati, in pratica il suo stile, che lo porta in un certo qual modo a nascondere il reale circoscrivendo la Cosa. «Lacan pensa al bello come efficacia simbolico-immaginaria della forma, il bello è un velo che ricopre la Cosa».12 Abbiamo altri lumi nella considerazione della lettura dell’opera d’arte partendo dalle origini e dalle pareti poco illuminate dei primitivi di Altamira. Le prime produzioni dell’arte primitiva e le immagini sovrapposte ci fanno pensare a una specie di aggiornamento di una certa possibilità creativa. Fattori espressivi per la storia della pittura sono le prove oggettive legate alla vita primitiva ma anche di carattere di sussistenza primitiva sotto l’aspetto della Cosa insieme al fare sviluppatesi dall’esercizio grafico sulla parete alla catena delle leggi geometriche e prospettiva. La storia della pittura è organizzata attorno al progressivo padroneggiamento dell’illusione dello spazio. Cosa diversa dalla creazione del vuoto. Questa idea evaporata del vuoto, che può essere il leitmotiv per arrivare al “inevitabile”, ci conduce al metodo per prova ed errore che è lo stesso adottato dagli organismi viventi nel processo di adattamento. «Si tratta di un metodo per ripetizione ed eliminazione. Con la ripetizione si giunge a un sistema di tracce nel processo di miglioramento dell’abilità e dell’intuizione».13 Con questa funzione gravida di perfezione e sistematica spoliazione delle apparenze e dalla constatazione di una raggiunta capacità, l’artista, sconfigge il narcisismo. Nell’artista c’è una funzione di poeta (se prende come meta del suo io il diventare poeta acquisendone la tendenza) che opera sul piano della sublimazione beneficiando (se è riconosciuta) di quelle positività fantasmatiche, onore, gloria che stavano nel principio di tendenza la quale giunge a soddisfarsi per via della sublimazione. L’artista è sempre alla ricerca del senso nascosto delle cose; il suo travaglio è di riuscire a
12 M. Recalcati, ibid, p. 2 13 K. R. Popper, Congetture e confutazioni, Bologna 1969, p. 531 sgg.
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esprimersi in modo incomparabilmente unico nella sua perenne insoddisfazione. L’atto di creare non ha nulla a che vedere con l’abilità di costruire un percettivo illusorio ma piuttosto di lavorare a un livello profondo dell’incoscio. Dal creatore ci si attende un oggetto-forza e capacità della mente di ordinare e dare logica al flusso incoerente delle sensazioni che è l’unico mezzo per far avvertire la presenza di un “altro” da sè. La soddisfazione estetica come segnale interiore è un perturbante rumore della mente al lavoro. Intervenendo sul fare arte W. Tatarkiewicz elenca sei ipotesi di lavoro che erano allora considerate comunemente le caratteristiche della produzione artistica; in pratica mostrano la storia dell’estetica. « 1- produzione di bellezza, 2- riproduzione fedele della realtà, 3- creare forme, 4- espressione delle emozioni, 5-generazione dell’emozione estetica, 6- lasciare una profonda emozione sul fruitore».14 Che cosa sia la bellezza la troviamo anche negli scritti degli autori citati da L.P.Finizio: «nei propositi di Jean Dubuffet non c’era segno che non potesse nascere dall’oscuro miscuglio delle cose, diceva che la verità è strana e che -dagli estremi limiti della stranezza si ha la possibilità di trovare le chiavi delle cose-. Come se dal fondo del silenzio la serrata, per tradizione, ottusa opacità delle cose materiali trovasse la via aperta dell’espressione, e in J.Derrida: la bellezza vaga, l’unica cosa che possa dar luogo a una predicazione di pura bellezza, è una erranza indefinita, senza limite, che si protende verso il suo oriente, ma si stacca da esso, più che privarsene in modo assoluto». 15 «La ricerca tratta quindi di un processo estetico come sottile dialettica tra oggetto e segno così che il residuo degli oggetti è presentato dalla realizzazione non è più residuo della percezione ma della coscienza».16 Coscienza la cui essenza non è determinata a priori ma gradualmente scoperta nel suo farsi. E possiamo ancora ripetere che il significante s’interpone tra percezione e coscienza, l’inconsio interviene e agisce il principio del piacere per la ricerca del bello che si pone come velatura e distanza estetica dal reale della Cosa.
14 W. Tatarkiewicz, History of Aesthetics (Mounton, L’Aia, Parigi PWN, Varsavia 1970) 15 L.P. Finizio, ibid, p. 46, 55 16 M. Bense, Estetica, Milano 1974, p.353
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Cosicché nell’esperienza del mondo freudiano l’oggetto è per sua natura perduto (perché rimane nel soggetto come soddisfazione impossibile da ritrovare) ed è con le sue coordinate del piacere involucro nel rapporto con la Cosa; si può trovare solo come Cosa in quanto altro assoluto del soggetto. Nell’attesa, in nome del principio del piacere, si cercherà quella tensione ottimale sotto la quale non si ha più percezione. In definitiva, senza qualcosa che la accenda come sistema di riferimento, nessuna percezione riesce a ordinarsi e costituirsi secondo un modo umano. Ciò che è cercato è l’oggetto (come definito da Lacan 1960) desiderato dal soggetto e che si sottragga a lui tanto da non essere rappresentabile; alla stregua di diventare un resto non simbolizzabile, appare come “mancanza di essere”. Al riguardo ci propone una riflessione anche il pensiero del filosofo Arnold Gehlen: «… proprio i quadri astratti possono essere colmi di una superiore intima tensione riflessiva, proprio perchè il “che cosa” oggettivo dell’immagine, la sua identità possono diventare ora il problema».17
Anche M. Dessoir fa un onesto tentativo di descrizione della sensazione estetica con gli stati emotivi attraverso cui si passa durante la contemplazione di un’opera d’arte. Un oggetto bello può produrre uno spasimo, un mancamento. «L’oggetto estetico è qualcosa di unico, e irripetibile, qualcosa che non si può più trovare e che può “accaderci” una sola volta nella vita. Qualcosa che può venire, in futuro, assimilato, approfondito, corretto, arricchito. Non si ripeterà mai più».18
Proseguendo sulla nostra rotta conoscitiva citiamo ancora “Elogio dell’astrattismo” dove L.P. Finizio scrive «Le forme dell’arte astratta non hanno vincoli di referenza significante e pertanto è proprio il sistema espressivo a costituire la loro valenza ontologica, il loro senso di realtà».19 L’arte non è per dimostrare o smontare ma pone degli interrogativi senza risposta di ritorno. Sempre restano gli obblighi dell’inquietudine.
17 L.P. Finizio, ibid, p.56 18 M. Dessoir, Aesthetics and Theory of art, trad. Ingl. (Wayne State University Press, Detroit 1970). Ed. Or. : 1923. 19 L.P. Finizio, ibid, p. 57
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Bisogna strofinare la realtà (sotto l’aspetto di reale lacaniano) con quantità di frammenti, di strappi, per trovare un’unità e un modo atto a risorgere piuttosto di restare in un confortevole abbandono conoscitivo. Considerando l’insieme di questo scritto, proviamo ad esaminare la lettura dell’arte non sotto l’aspetto empirico ma eidetico. Come abbiamo cercato di far affiorare, la teoria argomentativa lacaniana insiste, in modo inconsueto e decisivo, a porre l’arte in una relazione col reale in considerazione che è irriducibile al simbolico. Il predominio del significante che per Lacan è il principio del piacere al quale è sottoposto l’uomo, è l’effetto di come incide il significante sul reale psichico. Nell’estetica del vuoto, Lacan fa apparire una scelta non riducibile a quella del significante creando una resistenza, un patimento che fa affiorare un luogo, un vuoto, costituisce cioè una sorgente di ogni possibile rappresentazione. Il principio del piacere, il desiderio, si manifestano in modo fondamentale. C’è sempre una distanza tra la soddisfazione attesa e quella ottenuta cioè una mancanza, un difetto di soddisfazione costitutiva del soggetto, c’è sempre un’assenza radicale d’oggetto capace di colmare il soggetto. Per questa ragione il desiderio si definisce come movimento di ritrovamento di un oggetto fondamentalmente da sempre e mai perduto. Il funzionamento interno dell’apparato psichico si esercita nel senso di un andare tentoni, di una messa alla prova che si rettifica grazie alla quale il soggetto farà una serie di prove che lo porteranno al risultato, al superamento della messa alla prova nel sistema circostante dei vari oggetti presenti in quel momento nell’esperienza. Il tema fondamentale nell’esperienza è la messa in moto delle attese di piacere nella ricerca della bellezza che è come ruotare intorno alla Cosa nell’intento di avvicinarla. Il bello si accosta alla Cosa ma se ne mantiene separato. Con quanto abbiamo esposto non ci proponiamo di riparare il tessuto strappato del mondo, ne risolvere le tensioni insite nel vetro-cloaca dietro al quale gli occhi sensibili s’irritano, ma ambire a una trasparenza vagabonda affabile e libera che dialoga con l’ambiente, il tempo di posare la bricolla e riprenderla.
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Nietzsche ne “La nascita della tragedia” affermava che la vita per sopportare se stessa ha bisogno dell’arte. Arte e filosofia che dalla nostra nascita hanno vissuto, con amore e querelle come una vecchia coppia, animano ancora la vita dopo 2000 anni. Nella società contemporanea con sapore di underground (caduta delle idee), destockage (tutto si vende), melting point (atomizzazione) nella quale tutto viaggia alla stessa velocità come su uno schermo fino a diluirsi nel mondo della rete potrebbe essere utile pensare a una fiaba. Ritrovarsi con idee e mente di un cervello arcaico, senza carte, in un metaforico villaggio trogloditico (vedi grotte di Altamira) per ritrovare lo star bene psicologico così riconnessi con la nostra parte selvaggia in opposizione a una lettura del tutto omologato e selezionato. Nell’epidemia del non sense, quando il verde e l’organico vanno di moda, può portare conforto opporsi ai fumi degli ismi del tutto catalogato e infilarsi nell’incognito che scava e obbliga al ricambio ponendo mente all’estetica del vuoto. Giacchè non ci sarà un momento nel quale si scriverà VIETATO OPERAREARTE resta possibile un’incontro con l’insperato che non deve niente alla speranza per la via di fuga con la quale siamo partiti.

Paolo Ambrosio © 2012

Francese  par Caro Watters

Cette lecture de l’art  nous conduit à percevoir quelle aberration se formule dans la position implacable du philosophe: «Platon fait tomber l’art au dernier degré des oeuvres humaines, puisque pour lui, tout ce qui existe n’existe que dans son rapport à l’idée, qui est réelle. Ce qui n’existe n’est déjà qu’imitation d’un plus-que-réel, d’un surréel. Si l’art imite, c’est une ombre d’ombre, une imitation d’imitation. Vous voyez donc quelle vanité il y a dans l’oeuvre d’art, dans l’oeuvre du pinceau”.[1]

Platon voyait dans l’artiste un dangereux élément perturbateur de la République qu’on ne doit pas contaminer: Crainte étrange du plaisir parce qu’il avait tendance à analyser les causes sur une base psychologique, les formes artistiques devaient avoir de la force de séduction, dans la morale, dans la narration d’actes héroïques et dans l’intérêt civique pour la cohésion de la structure sociale de l’Etat. Les formes artistiques devaient dominer l’esprit afin de laisser intact le monde des idées.

Revenons à aujourd’hui, laissons  la couche géologique plus ancienne faire signe à l’imaginaire (le fantasme de l’artiste) qui se déploie de façon circulaire par détours et retours. C’est un processus dynamique pour l’individu (comme nous l’avons rapporté  précédemment), c’est la pulsion qui fait  tendre  l’organisme vers une cible non sexuelle, en le détournant vers un point d’arrivée socialement acceptable du registre de la sublimation; il y a donc transformation des   impulsions primitives en activité créatrice. En partant de la force pulsionnelle qui pousse à la création et à la sublimation, l’oeuvre a l’art de provoquer un plaisir à la hauteur du sentiment d’exultation, de stupeur, de nostalgie ou de terreur qui surgit dans la rencontre inattendue avec la Chose.

Cette façon de parler de la Chose évoque Roland Barthes dans son “ Empire des signes” quand il décrit Tokyo: «La ville dont je parle (Tokyo) présente ce paradoxe précieux: elle possède  bien un centre, mais ce centre est vide. Toute la ville tourne autour d’un lieu à la fois interdit et indifférent, demeure masquée sous la verdure, défendue par des fossés d’eau, habitée par un empereur qu’on ne voit jamais, c’est- à- dire, à la lettre, par on ne sait qui. Journellement, de leur conduite preste, énergique, expéditive comme la ligne d’un tir, les taxis évitent ce cercle, dont la crête basse, forme visible de l’invisibilité, cache le «rien» sacré. L’une des deux villes les plus puissantes de la modernité est donc construite autour d’un anneau opaque de murailles, d’eaux, de toits et d’arbres, dont le centre lui-même n’est plus qu’une idée évaporée, subsistant là non pour irradier quelques pouvoir, mais pour donner à tout le mouvement urbain l’appui de son vide central, obligeant la circulation à un perpétuel dévoiement. De cette manière, nous dit-on, l’imaginaire se déploie circulairement, par détours et retours le long d’un sujet vide».[2] C’est certainement une analogie très intéressante avec l’esthétique du vide de Lacan.

Nous avons d’autres analogies au sujet de l’esthétique du vide avec l’éloge de la conscience d’Emilio Vedova. «Quand vous voyez mes tensions de signes, où tout explose, ells sont immédiatementé étiquettées: Informel!. Cet avis est superficiel. Mes œuvres sont pleines de structures, ces structures sont des structures de ma conscience».[3] Ainsi, l’artiste à son insu, précède le psychanalyste. Ce qui apparaît en dehors du contrôle de la conscience, dans l’inconscient, n’est pas sous les structures,  mais c’est ce qui constitue, dans la vision lacanienne, le mystère insoluble du réel. Dans l’étourdissememt de la conquête, le fantasme de l’artiste confronté au hasard et à la nécessité, donne une lumière à l’oeuvre, enfermant la réalité entre le dévoilé et le caché. C’est entre réel et signifiant que la Chose met un voile, comme si elle voulait enquêter sur un délit; l’objet libéré de son usage fonctionel révèle la Chose.

Vedova était sur une voie satisfaisante  dans la recherche de la tendance propre d’être un artiste, à savoir que  l’objet représenté n’est pas important, mais est fondamentalement une approche de la  Chose. Vedova avait peut-être l’intention de donner de la dignité à l’objet sans céder à la tentation du raccourci abstrait.

Les idées proviennent de l’excitation intellectuelle, des sensations, des contacts extrêmes, de la perception des comportements des autres, donc de l’immersion sensorielle, pour comprendre les lendemains du monde non classifiables en tant que figurative ou abstrait: La recherche de la beauté revient un peu à faire la ronde autour de la Chose, dans l’ intention de l’approcher: Le terme “la Chose” dérive du grec, avec un signifié de cause, enveloppe et désignation du concret.

L’histoire, bien sûr, exerce une puissance aveugle sur chacun de nous, mais une autre puissance peut lui être opposée, la beauté.

La recherche de la beauté fait partie du thème «l’amour du beau». Le beau indique la direction de l’appel, de l’attraction vers la possession, du plaisir de posséder.

«Le beau n’est pas pour Lacan fait d’une pure harmonie formelle – le beau n’est pas le refoulement de la laideur du réel – mais c’est une modalité d’expérience de la distance esthétique du réel de la Chose, et en même temps, l’indice de l’au-delà de l’absolu que la Chose constitue par rapport au champ  des semblants sociaux. Au fond, c’est là qu’est l’homologie profonde entre art et psychanalyse; les deux sont des pratiques du symbolique qui visent à traiter le réel de la Chose, elles prennent corps dans le temps pendant lequel les semblants vacillent».[4]

Dans l’art contemporain, comme expression nécessaire à la réalité du monde, nous trouvons, laissant derrière le concept de l’abstraction, l’amour du beau chez plusieurs artistes contemporains, parmi lesquels la joie de vivre des objets de Jeff Koons. Du travail de Koons, nous pouvons dire que le fantasme nu est porté au même degré d’évidence que l’objet de consommation, donc ni figuratif, ni abstrait, mais innommable. «L’œuvre “Balloon Swan” est un mirage proche du surréalisme, ou du burlesque ou d’une statue fétiche préhistorique».[5]

Le travail de Koons peut être considéré comme une anamorphose, à cet égard, J.Lacan dit que l’intérêt envers l’anamorphose est décrit comme la plaque tournante où l’artiste renverse complètement l’utilisation de l’illusion de l’espace. Koons cherche à le ramener à son objectif initial, à savoir d’en faire en tant que tel, le soutien de la réalité cachée, car dans une œuvre d’art, il y s’agit toujours, quelle que soit la modalité, de circonscrire la Chose.

A partir de l’esthétique du vide, nous avons fait un saut vers l’esthétique anamorphique, dans laquelle ce n’est pas le sujet qui contemple l’oeuvre, mais l’écorce, le tégument de l’oeuvre qui capture le sujet. Avec la recherche de la beauté, on le constate dans l’exemple précédent, chaque sujet artiste construit à partir de son histoire intime,  un ou plusieurs objets privilégiés, en pratique son style, qui le porte selon une certaine modalité à cacher le réel en circonscrivant la Chose. «Lacan pense au beau comme réussite symbolique-imaginaire de la forme, le beau est un voile qui recouvre la Chose».[6]

Nous avons d’autres lumières dans la considération de la lecture de l’œuvre d’art, en partant des origines: les parois et les murs faiblementé éclairés des primitifs d’Altamira. Les premières productions de l’art primitif et les images qui se chevauchent nous font penser à une sorte de mise à jour d’une certaine possibilité créative. Les facteurs expressifs pour l’histoire de la peinture sont des preuves objectives liées à la vie primitive, mais aussi au caractère de subsistance primitive sous l’aspect de la Chose. Cet ensemble est la base du développement de  l’exercice graphique primitif sur les parois selon la logique de la géometrie et avant la découverte de la perspective inconnue à cette époque. L’histoire de la peinture est organisée autour de la maîtrise progressive de l’illusion de l’espace. Ce qui est  différent de la création à partir du vide de la Chose.

Cette idée évaporée du vide,  qui peut être le leitmotiv pour arriver à la «inévitable»,  nous conduit à la méthode par essai-erreur (trial and error) également  adoptée par les organismes vivants dans le processus d’adaptation. Pour résoudre un problème donné (le problème est toujours premier), on propose plusieurs hypothèses solutions qu’il s’agit de tester et on élimine celles qui aboutissent à une erreur.  «Il s’agit donc d’une méthode par répétition et élimination. Avec la répétition, on atteint un système de traces dans le processus d’amélioration des compétences et de l’intuition».[7] Avec cette fonction amenant  perfectionnement, dépouillement systématique de l’apparence, capacité optimale,  le narcissisme de l’artiste est vaincu.

Chez l’artiste il y a une fonction de poète  (du fait de la  tendance à prendre son ego comme but) qui amène l’œuvre à se diriger du côté de la sublimation, lui apportant honneur et gloire. L’artiste est toujours à la recherche du sens caché des choses; son travail est de réussir à s’exprimer selon un mode unique, pris dans une insatisfaction perpétuelle. L’acte de création n’a rien à voir avec la capacité de construire une perception illusoire, mais plutôt de travailler à un niveau profond, inconscient. On attend du créateur un objet à forte valeur expressive et un esprit  capable  de mettre de l’ordre et de la logique au flux incohérent des sensations qui avertissent de la présence d’un «autre» que soi-même. La satisfaction esthétique en tant que signal intérieur est une rumeur perturbante pour l’esprit au travail,

Dans son intervention sur la manière  de faire de l’art W. Tatarkiewicz énumère six hypothèses de travail qui ont ensuite été généralement considérées comme les caractéristiques de la production artistique montrant, en pratique, l’histoire de l’esthétique.

«1- production de beauté, 2- reproduction fidèle de la réalité, 3- création de formes, 4- expression des émotions, 5 -production de l’émotion esthétique, 6- production d’une émotion profonde chez le spectateur»[8]

Quelle que soit la beauté nous trouvons la même chose dans les écrits des auteurs mentionnés par L. P. Finizio: «dans les propositions de Jean Dubuffet, il n’y avait  aucun signe qui  ne pouvait naître de l’obscur mélange des choses, il disait que la vérité est étrange et que  –à partir des limites extrêmes de l’étrangeté, on à la possibilité de trouver les clés de choses-. Comme si du fond du silence, clos par tradition, et de l’opacité obtuse, les choses matérielles trouvaient la porte ouverte de l’expression.[9] Selon J. Derrida: la beauté est vague, la seule chose qui peut donner lieu à une prédication de pure beauté, est une errance indéfinie, sans limite, qui tend vers son orient, mais s’en détache, plus qu’elle ne s’en prive sur un mode absolu».[10]

«La recherche traite donc d’un processus esthétique comme dialectique subtile entre objet et signe, de telle sorte que le résidu des objets est présenté, à la réalisation, non plus comme un résidu de la perception, mais de la conscience».[11] L’essence de la conscience n’est pas déterminée a priori, mais se découvre graduellement. Nous pouvons encore répéter que le signifiant s’interpose entre la perception et la conscience, inconsciemment le principe du plaisir agit à la recherche du beau.

Ainsi, dans l’expérience du monde freudien, l’objet est par nature perdu (il reste chez le sujet comme satisfaction impossible à retrouver) et il est, avec ses coordonnées enveloppé avec la Chose; on peut le trouver seulement comme Chose en tant que Autre absolu du sujet. Dans cette attente, au nom du principe de plaisir, on cherchera la tension optimale en dessous de laquelle il n’y a plus de perception.

En définitive, si rien ne vient l’allumer comme système de référence, aucune perception ne réussit à s’ordonner et à se constituer chez l’être humain. Ce qui est cherché c’est l’objet (tel qu’il il est défini par Lacan en 1960) désiré par le sujet, cet objet lui échappe du fait de ne pas être représentable; de la même manière devenant un reste non symbolisable, il apparaît comme «manque à être».

A cet égard, le philosophe Arnold Gehlen nous propose une réflexion: «… précisement les peintures abstraites peuvent être remplies d’une  tension intime supérieure, réflexible, précisément parce que le “che cosa” objectif de l’image, son identité, peuvent désormais devenir le problème».[12]

Egalement, M. Dessoir fait une tentative honnête de description de la sensation esthétique avec les états émotionnels traversés durant la contemplation d’une œuvre d’art.Un bel objet peut produire un spasme, un évanouisssemant. «L’objet esthétique est quelque chose d’unique et irremplaçable, quelque chose qu’on ne peut plus trouver et qui peut se produire une seule fois dans la vie. Quelque chose qui peut venir, dans l’avenir, assimilé, approfondi, corrigé, enrichi. Il ne se reproduirà jamais plus».[13]

En poursuivant notre chemin citons encore “Elogio dell’astrattismo” où L.P. Finizio écrit. «Les formes de l’art abstraite sont hors signifiant et il appartient au système expressif de leur donner une valeur ontologique, et un sens de réalité».[14] L’art n’est pas fait pour démontrer ou démonter, mais pose des questions sans réponse en retour. L’inquiétude demeure toujours.

On a besoin de se frotter à la réalité (sous l’aspect du réel lacanien) avec une quantité de fragments, de déchirements, pour trouver une unité et un moyen pour renaître  plutôt que de s’abandonner dans une position de confort.

En prenant en considération l’ensemble de cet écrit, nous essayons d’examiner la lecture de l’art, non pas sous l’aspect empirique, reposant sur l’expérience,  mais eidétique, c’est-à-dire la reviviscence d’une perception après un certain temps de latence.

Comme nous avons cherché à le mettre en evidence, la théorie lacanienne insiste sur un mode inhabituel, décisif, à mettre l’art en relation avec le reél en considérant qu’il est irreductible au symbolique. Le primat du signifiant, auquel est soumis l’homme, selon Lacan renvoie à la fonction du signifiant sur le réel.  Dans l’esthétique du vide, Lacan fait apparaître un choix non réductible à celui du signifiant, créant, une souffrance qui fait affleurer un lieu, un vide, source de toutes sortes de représentations possibles.

Il y a toujours une distance entre la satisfaction attendue et celle qui est obtenue c’est-à-dire un manque, un défaut de satisfaction constitutive au sujet, il y a toujours une incapacité radicale de l’ objet à remplir le sujet. Pour cette raison, on peut définir le désir du sujet comme tentative de retrouver un objet qui est toujours et à jamais perdu.

Le sujet marche a tàtons, sur le mode essai- erreur, pour arriver à un résultat il doit dépasser les obstacles du système des objets de l’expérience, Le thème fondamental de l’expérience est la mise en mouvement de l’attente du plaisir dans la recherche  de la beauté, ce qui revient à faire la ronde autour de la Chose, dans l’intention de s’en approcher. Le beau aborde la Chose mais s’en mantient séparé.

A ce point de notre exposé nous ne proposons pas de réparer le tissu déchiré du monde, ni de résoudre les tensions cloacales que irritent les yeux. Nous voulons arriver à un vagabondage, léger, aimable, et libre, pour dialoguer avec l’environnement, le temps de poser le sac à dos pour le reprendre ensuite.

Dans «La Naissance de la tragédie», Nietzsche affirme que pour se supporter, la vie a besoin de l’art.

Depuis leur naissance, art et philosophie, bien qu’ayant vécu avec amour et querelles comme un vieux couple, amènent encore de la vie depuis plus de 2000 ans.

Dans la société contemporaine avec la saveur de l’underground, (la retombée des idées), le déstockage (tout se vend), le melting point (atomisation), tout voyage à la même vitesse comme sur un écran jusqu’à se diluer dans le monde des réseaux, il pourrait être utile de penser à une fable. Se retrouver avec les idées et l’esprit d’un cerveau archaïque, sans papiers, dans un métaphorique village troglodyte (voir les grottes d’Altamira) pour retrouver le bien-être psychologique, ainsi reconnecté avec notre partie  sauvage en opposition à une lecture de tout ce qui est homologué et sélectionné.

Dans l’épidémie du non-sens, quand le vert et le biologique sont à la mode, on peut apporter du confort en s’opposant aux fumées des conformismes,du tout catalogué et entrer dans l’inconnu qui approfondit et oblige à retrouver quelque chose rappelant l’esthétique du vide.

Tant qu‘il n’y aura jamais un moment où on écrira INTERDIT AUX OEUVRES D’ART, une rencontre reste possible avec l’inespéré qui ne doit rien à l’espérance, en empruntant la voie de fuite de laquelle nous sommes partis.

 

Paolo Ambrosio   2012 ©

Traduction de Carol Watters

[1]  J. Lacan, ibid, p. 169

[2]R. Barthes, L’empire des signes, Edition du Seuil, 2005, p.47

[3]L. P. Finizio, Elogio dell’atrattismo, Mimesis, Milano, 2012, p. 32, E. Vedova, scontro di situazioni-Libertà dell’epressione, Ed. All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1963.

[4]M. Recalcati, ibid, p. 2.

[5]Le Monde, Culture, article de Philippe Dagen, Un jeff Koons en cashe touiours un autre, 15 may 2012, p. 24.

[6]M. Recalcati, ibid, p.2

[7]K. R. Popper, Congetture e confutazioni, Bologna 1969, p. 531sgg.

[8]W. Tatarkiewicz, History of Aesthetics  (Mounton, L’Aia, parigi PWN, Varsavia 1970)

[9]L.P. Finizio, ibid, p.46, J. Dubuffet, i valori selvaggi, – Prospectus ed altri scritti (1967), tra. It.. Introduzione di R. Barilli, Editore Feltrinelli, Milano, 1971, p. 100.

[10]L.P. Finizio, ibid, p. 55, Da verità in pittura, 1978, trad. it. Newton Compton Editori, Roma, 1981.

[11]M. Bense, Estetica, Milano 1974, p. 353

[12]L. P. Finizio, ibid, p. 56, A. Gehlen, Quadri d’epoca, 1986, trad. it. di G. Carchia, Guida Editori, Napoli, 1989, p. 158.

[13]  M. Dessoir, Aesthetics and Theory of art, tra. Ingl. (Wayne State University Press, Detroit 1970), Ed. Or. 1923.

[14]L. P. Finizio, ibid, p. 57.